Contenuti per adulti
Questo testo contiene in toto o in parte contenuti per adulti ed è pertanto è riservato a lettori che accettano di leggerli.
Lo staff declina ogni responsabilità nei confronti di coloro che si potrebbero sentire offesi o la cui sensibilità potrebbe essere urtata.
Sto guidando, nella notte profonda che pare estendersi senza fine.
Non l’ho mai detto a Dalia, seduta accanto a me e con lo sguardo rivolto verso il finestrino, ma ho una fottutissima paura del buio. E il fatto di non avere ancora incontrato nessuno sulla strada non mi fa di certo stare meglio.
Lei borbotta qualcosa, teme di arrivare in ritardo e di fare arrabbiare i suoi amici. Ha anche finito le sigarette ed è più nervosa del solito, ma a me questo non importa.
Sono invece le case con le luci spente a farmi preoccupare: si ergono ai lati della strada e mi ricordano la solitudine, la depressione, gli anni passati in compagnia delle bottiglie di birra e di persone sulle quali preferisco sorvolare.
Ma alla fine il tempo passa e cerco perfino di sorridere. Dalia mi ammonisce facendomi notare che saremmo dovuti partire prima, io annuisco col capo e con un semplice bacio la discussione termina. Ma la mia paura resta.
Non appena passiamo davanti al commissariato di polizia, mi intima di girare a destra; obbedisco senza esitare, consapevole di quanto sia fortunato ad avere qualcuno come lei che mi indica la strada da percorrere. La sua presenza risoluta mi trasmette infatti un senso di controllo sulla situazione permettendomi così di lasciare alle spalle, anche se solo per un breve momento, quel groviglio di angosce e di paure che troppo spesso mi paralizzano.
Arriviamo così di fronte al misterioso edificio che un tempo doveva essere un complesso di uffici o qualcosa di simile. Anche se ora è in completo abbandono, continua con la sua altezza a sovrastare gli edifici più bassi che lo circondano; le sue vetrate, incredibilmente intatte,
brillano debolmente nella penombra dando l’illusione che al suo interno ci sia ancora qualcuno.
Fermo la macchina e indugio per un attimo: perché ho questa strana sensazione che, se attraversiamo la grande porta d’ingresso, qualcuno ci verrà incontro?
Penso che probabilmente sia solo il frutto della mia suggestione e, mentre apro il bagagliaio della macchina prendendo le coperte e l’immancabile torcia, vengo nuovamente ammonito da Dalia che, scesa anche lei, mi fa notare le cibarie. Annuisco e infilo tutto in uno zainetto, che poi indosso.
Le consegno la torcia e non posso fare a meno di notare il suo volto: comune ma gioviale, parzialmente coperto da un foulard che ne accentua i contorni. Nulla sembra scalfirla eppure, a dispetto della sua espressione severa, la sciarpa che le avvolge il collo e parte delle spalle sembra quasi volerla proteggere dal mondo esterno.
Mi guardo intorno e non vedo altre macchine all’infuori della nostra. Controllo l’ora e mi accorgo che siamo in ritardo; lo faccio notare anche a Dalia che si limita a sollevare le spalle e a scuotere la torcia per verificarne il funzionamento. Sembra che sia l'unica cosa che le interessi in questo momento, e preferisco lasciarla fare.
Facendomi poi un vistoso segno con la mano mi chiede di seguirla alla svelta e c’incamminiamo così lungo un pendio che si snoda a lato dell’edificio, serpeggiando in salita tra le case. È circondato ai lati da alberi e cespugli che, man mano che procediamo, s’infittiscono sempre di più. L’aria è priva di vento e dal suolo affiorano di tanto in tanto delle radici nodose che ci costringono a muoverci con cautela.
Tutto questo mi ricorda la mia infanzia, quando passavo i pomeriggi estivi a scorazzare con gli amici tra le numerose stradine di montagna alla ricerca di “tesori nascosti”. E nella mia fantasia immaginavo perfino delle pietre tombali che celavano passaggi segreti disseminati di trappole mortali, rivolte a tutti coloro che avessero osato attraversarli.
Dalia nel frattempo continua imperterrita ad avanzare e mi rendo conto di fare sempre più fatica a starle dietro. Le gambe iniziano a tremare per lo sforzo e mi ritrovo a corto di fiato; poi, proprio mentre sto per arrendermi, scorgiamo alla nostra destra uno spiazzo erboso e decidiamo finalmente di fermarci.
Mi asciugo il sudore con il dorso della mano e tiro fuori dallo zaino le coperte che stendo poi sul prato. Chiedo a Dalia se ha fame e lei risponde di no; sapendo che insistere sarebbe inutile, mi sdraio allora su una delle coperte con lo sguardo rivolto verso un cielo sereno e punteggiato da innumerevoli stelle, che sembrano a loro volta delle piccole lampadine sospese nel buio.
Dalia si avvicina e mi si siede accanto, illuminando con la torcia la zona circostante e rivelando così la presenza di alcune panchine poco distanti, circondate da quello che a prima vista sembra essere un cumulo di cartacce. Ad un esame più attento però, Dalia nota tra di esse alcuni oggetti a lei familiari: una sciarpa di lana con i lembi strappati, un thermos riverso, una macchina fotografica con l’obiettivo rotto e soprattutto gli occhiali di Andrea, che riconosce immediatamente per via della montatura dai colori sgargianti.
Quindi eravamo noi in ritardo e i suoi amici ci hanno preceduti. Poi sembra essere successo qualcosa di spaventoso, che li ha costretti a scappare via e a tornare indietro in fretta e furia con la loro macchina. Qualcosa però non torna, perché a quel punto avrebbero dovuto almeno avvertirci.
Lo faccio notare a Dalia che, dopo aver controllato sul cellulare l’assenza di chiamate e di messaggi, annuisce visibilmente spaventata.
Un brivido mi percorre la schiena e il mio istinto mi spinge a spegnere la torcia che Dalia stringe nervosamente tra le mani.
Improvvisamente, il silenzio viene rotto da un gorgoglio distante che diventa però più forte man mano che il tempo passa. Qualcosa - o qualcuno - si sta avvicinando e chiedo a Dalia di aiutarmi a raccogliere le coperte.
Abbandoniamo in fretta e furia lo spiazzo erboso e ci dirigiamo di corsa verso il pendio che sembra ora trasformarsi in una discesa ripida e minacciosa: la cosa più logica da fare sembrerebbe infatti essere quella di tornare indietro seguendo lo stesso percorso da dove siamo venuti, ma il mio istinto mi spinge invece a nascondermi nella fitta vegetazione che circonda il sentiero, trascinando Dalia con me.
Improvvisamente, della luce riesce a filtrare attraverso la vegetazione, dandoci l’impressione di non essere sufficientemente nascosti. Sembra quasi che le case circostanti si siano illuminate di colpo, anche se non posso esserne sicuro perché non riesco a vederle.
Ed ecco poi che arrivano: esseri spaventosi, neri come la pece, che sembrano plasmarsi nell’ombra senza mai assumere un aspetto definito. Tutti però hanno una cosa in comune: gli occhi rossi, caratterizzati da pupille enormi grandi quasi come gli occhi stessi, che si muovono lentamente scrutando l’oscurità.
Siamo stati molto fortunati ad avere la presenza della luce. E solo ora inizio a capire cosa sia accaduto agli amici di Dalia; queste creature sono praticamente invisibili al buio e li hanno sicuramente sorpresi senza neanche dare loro il tempo di reagire.
Non ci resta che inoltrarci nella vegetazione, con la speranza di trovare qualche altra via d’uscita. Il gorgoglio si è ora attenuato e ai nostri piedi si apre una strada privata, circondata da diverse case dalle finestre illuminate. Avevo quindi visto giusto sulla fonte della luce e me ne compiaccio; mi rendo però conto che siamo piuttosto in alto rispetto a essa, ma sulla sinistra il terreno si abbassa, creando un passaggio più agevole per scendere.
Ci ritroviamo così a percorrere una strada stretta e dissestata, e mi accorgo che le parti si sono invertite: sono io ora a prendere le decisioni mentre Dalia, in preda al terrore, si stringe al mio braccio fissando con gli occhi sgranati tutto ciò che la circonda.
Mi guardo intorno e le case sembrano essere tutte uguali: i muri in buona parte anneriti dall’umidità, i tetti di pietra spioventi e le finestre chiuse con le tende scostate trasmettono un senso d’inquietudine che mi riesce difficile spiegare. Non si scorgono figure dietro di esse, ma ho la netta sensazione che qualcuno ci stia osservando.
In lontananza si staglia, come una sagoma scura contro il cielo, l’alto edificio vetrato che, man mano che avanziamo, diventa sempre più imponente rispetto alle case più piccole che lo precedono, quasi come se le volesse in qualche modo schiacciare. A differenza delle altre abitazioni continua a non emettere la minima luce, ma le sue vetrate riescono comunque a riflettere a tratti i bagliori delle case circostanti.
Qualcosa poi cattura la mia attenzione; tra le abitazioni che si susseguono, una si distingue per la sua decadenza più marcata. Lo steccato marcio e divelto è tutt’altro che rassicurante e il cortile è soffocato da erbacce. Ma è dal capanno in fondo ad esso che riesco a scorgere qualcosa che irrigidisce Dalia al mio fianco: il muso di un’auto che sembra essere quella di Andrea.
Prima gli occhiali e adesso la sua macchina, quasi come se quell’uomo volesse “indirizzarci” verso la soluzione della loro misteriosa scomparsa.
Dalia non pronuncia una parola, ma la sua presa sul mio braccio diventa più forte. Probabilmente teme il peggio e condivido i suoi timori: la presenza infatti della sua auto in un posto del genere non lascia presagire nulla di buono ma, arrivati a questo punto, non possiamo fare altro che andare a controllare.
Attraversiamo così lo steccato divelto e ci facciamo strada tra le fitte erbacce procedendo a fatica, quasi come se volessero avvolgerci le gambe per impedirci di avanzare. Dopo un tempo che a me appare infinito, raggiungiamo finalmente la sagoma dell’auto che si rivela così in tutta la sua interezza: è proprio la sua.
Ci avviciniamo al parabrezza e noto immediatamente che la superficie interna del vetro è chiazzata da macchie scure e rossastre; sul cruscotto e sui sedili si possono intravedere dei frammenti di quelli, che a un esame più attento, si rivelano essere dei brandelli di carne. Restiamo immobili per un istante e poi la voce di Dalia esplode in un urlo acuto e straziante, che lacera il silenzio e riecheggia tra le case circostanti. Con le mani strette ai lati del capo si lascia cadere in ginocchio, incredula a ciò che i suoi occhi hanno appena visto.
E adesso lo sento di nuovo: lo stesso gorgoglio di poco fa che cresce con inquietante rapidità. Dalle finestre illuminate scorgo ora delle sagome nere che ci osservano, immobili e senza contorni definiti.
Dobbiamo assolutamente scappare.
Sollevo Dalia e la bacio delicatamente sulle labbra. Lei scoppia a piangere e stringe la sua mano nella mia; iniziamo a correre, lasciandoci alle spalle quello spettacolo raccapricciante e diretti verso la nostra vettura, nella speranza che sia ancora parcheggiata là dove l’abbiamo lasciata.
Non ho l'esatta percezione del tempo che scorre e ho come l'impressione di tornare sempre allo stesso punto di partenza. Sono in un incubo che pare non avere fine e, intorno a me, le case sembrano stringersi fino quasi a soffocarmi. Anche le finestre illuminate si contraggono fino a diventare delle semplici fenditure. Le ombre che popolano la mia mente affiorano insieme ai ricordi che s’intrecciano senza logica: piacevoli serate trascorse con gli amici a chiacchierare del più e del meno si alternano a momenti di solitudine in cui sono seduto a terra, con una bottiglia in mano e la schiena appoggiata ai muri umidi di strade sporche e maleodoranti. I singhiozzi sommessi di Dalia sono quasi impercettibili e le sagome nere dietro i vetri delle case sembrano iniziare ad agitarsi, come se si stessero preparando a inseguirci per farci fare la fine che forse meritiamo: quella di eterne vittime, sconvolte da una violenza esasperata che non sembra lasciare scampo.
Le mie gambe continuano a correre seguendo una volontà propria, quasi istintiva, e solo la forte stretta di mano di Dalia mi riporta finalmente alla realtà.
Ci siamo fermati.
Siamo ritornati al punto di partenza.
Mi guardo intorno e noto subito, con un sollievo che non so descrivere a parole, che la nostra macchina è ancora lì, esattamente dove l’avevamo lasciata. È parcheggiata al margine di un piazzale deserto con l’alto edificio vetrato che sembra quasi piegarsi su di noi, come se volesse inghiottirci insieme all’auto e a tutto il resto. La sua vicinanza mi toglie letteralmente il respiro e noi due, rispetto a quella massa scura e impenetrabile, sembriamo dei topolini smarriti al cospetto di un elefante che potrebbe schiacciarli da un momento all’altro.
Noto anche che il gorgolio è improvvisamente cessato: hanno forse smesso d’inseguirci perché siamo riusciti a fuggire abbastanza in fretta o hanno magari deciso che sarà qualcun altro a prendersi “cura” di noi?
E mentre mi sto ancora ponendo quelle domande, intento a salire in macchina insieme a Dalia, arrivano le risposte.
L’edificio vetrato, fino a un momento prima immerso nell’oscurità, s’illumina all’improvviso e dall’ingresso principale emergono le stesse creature incontrate prima: nere come la pece, dai contorni indefiniti, che avanzano verso di noi a gran velocità.
La luminosità è accecante, ma riesco comunque a coprirmi gli occhi con le mani.
Richiudo la portiera di scatto e metto in moto. Un colpo sordo ci fa sussultare entrambi: nello specchietto retrovisore vedo qualcosa di scuro, simile a un pugno, che sfonda il lunotto posteriore. Senza lasciarmi intimidire, schiaccio con forza il pedale dell’acceleratore, lasciandomi alle spalle quelle ignobili creature che sembrano dissolversi man mano che ci allontaniamo.
Sto cercando di capire come ritornare nella strada principale e ad un tratto Dalia mi intima di sterzare a sinistra; in effetti mi stavo per infilare in un vicolo cieco e sono contento di essere riuscito a imboccare la via giusta. Più ci allontaniamo, più l’edificio vetrato si rimpicciolisce e quando raggiungiamo il commissariato di polizia sterzo bruscamente a sinistra, ignorando il semaforo e deciso a non fermarmi per nessuno motivo al mondo.
Dalia sussulta e mi lancia uno sguardo severo, quasi come se volesse rimproverarmi, ma poi esita e volge lo sguardo verso il finestrino, chiedendomi con voce incerta se non sia il caso di riferire quanto abbiamo visto ai poliziotti.
Non reputo il commissariato un posto sicuro, poiché nulla esclude che quei mostri possano trovarsi anche lì dentro.
Mentre glielo faccio notare e lei mi osserva per un istante e poi abbassa lo sguardo: sembra essere convinta della mia risposta.
Tiro un respiro di sollievo. I lati della strada sono nuovamente fiancheggiati dalle case immerse nel buio.
Qualche luce però si è accesa. Qualcuno è alla finestra.
Stringo il volante e premo l'acceleratore: voglio andarmene al più presto da qui...